L’ultimità

Ci sono notti in cui ripenso alle persone che ho visto durante il giorno. Le loro storie sono collegate, una storia porta a un’altra e poi a un’altra ancora. Ci sono quelli che amo e quelli che mi stanno antipatici, quelli con cui vorrei diventare amico e quelli che vorrei scomparissero il prima possibile, quelli che vedo troppo spesso e quelli che temo di non vedere mai più.

Faccio il barista e, da qualche anno, lo faccio al Bar dell’Ultimo, il bar che “ospita solo gli ultimi a fare, dire o essere qualcosa” (trascrivo quanto scritto sulla lavagna all’ingresso). Il Bar dell’Ultimo è la destinazione di quelli che sono in via d’estinzione, un posto in cui i clienti sono persone rare che sanno di esserlo. Ad esempio, l’altro ieri ho servito la colazione all’ultimo produttore di cornette per telefoni e preparato un Martini col ghiaccio a l’ultima indigena della Decídia. A parte loro, non ne restano altri, sono gli “ultimi” rimasti.

Nando de Merulis, professore di filosofia rimasto disoccupato, è il proprietario del bar. Si è inventato questa idea bizzarra quando ha ristrutturato le tre stanze ereditate da suo zio e ha deciso di aprire “Il bar dell’Ultimo”. Visto il criterio stringente, c’è sempre qualcuno che ci fa notare che è un bar ‘esclusivo’. Non è così. Infatti, a ben guardare, siamo sempre gli ultimi esemplari di qualche specie, basta indagarsi e ingegnarsi un poco. Per quanto possibile, noi del bar facciamo le nostre ricerche e, se qualcuno dichiara di essere – faccio un esempio capitatoci l’anno scorso – l’ultimo principe calvo del mondo, noi controlliamo. Nel caso specifico, abbiamo scoperto che di principi calvi ce ne erano ben più di uno: in Mangonia, in Turpistan e nell’insospettabile Capellonia. A questo punto, il principe calvo Piergiulio De Tremendis si é trovato la porta di legno; che si trovasse un’altra narrazione nella quale fosse davvero l’ultimo, ci siamo detti io e Nando. E infatti, dopo che il suo paese ha votato la democrazia, si è ripresentato al bar, chiedendo di essere ammesso come l’ultimo principe del suo paese. Stavolta la sua proposta non faceva una piega. Lo abbiamo fatto entrare e, dopo essersi scolato qualche Kir Royale, cantava “ho visto un re”, insieme a l’ultimo prete di Monticino, il paesino di montagna spopolatosi dopo la chiusura della fabbrica di monocoli. In quel momento il bar era quasi vuoto e mi sono unito a loro. Cantavamo a squarciagola. Non so loro, ma io mi sono divertito tantissimo.

Prima di trovare questo lavoro, ho inviato curriculum dappertutto. Bastava che fossero bar o mi facessero fare quello che mi piace di più, cioè il barista. Quando stappo, spremo, sminuzzo, pesto, shakero, filtro, verso, mi sento uno stregone dei giorni nostri e, anche quando servo acqua di rubinetto, mi fermo a osservare come ogni avventore beva o si disseti a modo proprio. Il rituale di ruotare il collo e reclinare la testa per bere è un gesto ripetuto che affonda radici nella nostra fanciullezza e ci rende unici. Mille teste, mille gargarozzi. Così mi piace pensare.

Come dicevo, per trovare questo lavoro ho inviato molti curriculum: al bar Lafüs, al bar Jolly, al bar Aonda, al bar dei quattro amici di Gino Paoli e pure al Roxy Bar (come non potevo). Mi hanno preso solo al Bar dell’Ultimo. Qualche mese dopo l’assunzione, Nando mi ha spiegato che, secondo lui, io sono “l’ultimo barista a guardare al bar come crocevia di destini e luogo per lo scambio di storie”. Quando lo ha detto, devo avere fatto una strana espressione, perché si è subito prodigato nel aggiungere “… e, vabbè, sì, mi piaceva anche la tua conoscenza della storia dell’acqua”. Che tipo, Nando! Durante il colloquio non mi era piaciuto affatto. Sembrava distante, giocava con una matita. Credo proprio stesse pensando alla supercazzola del crocevia di destini.

Ogni volta che mi metto dietro a un bancone, mi sento importante. Non importa se faccio questo lavoro da una decina d’anni. Mi sento Freddy Mercury al Live Aid. Più o meno. È verissimo quello che si dice della gente che frequenta i bar: al bancone hanno una gran voglia di raccontare i fatti propri. Io adoro ascoltarli. Matilde, la figlia di Nando con cui lavoro, sostiene che le storie da bancone sono noiose. In parte lei ha ragione perché sono pochi quelli che sanno raccontare bene le proprie storie. Il più delle volte io cerco di indirizzarli, chiedendo chiarimenti o servendo la classica domanda passepartout: “e tu, cosa hai provato?”. Quella domanda funziona sempre. Se Matilde ha ragione sulla forma, non mi trova assolutamente d’accordo sulla sostanza: secondo me, le storie raccontate al bancone sono delle bombe, soprattutto quando vengono accennate o restano incompiute.

Stamattina, durante il mio turno preferito, quello delle colazioni, è entrata l’ultima compagna di Rodolfo Dellorio, il famoso sciupafemmine morto di overdose di pasticcini. Silvia, donna scialba ma inspiegabilmente intrigante, sembra uscita da un romanzo non ancora scritto. Dopo aver ordinato un cappuccino deca fissandomi negli occhi, ha detto che “sarebbe bello poter decidere quando innamorarsi e quando smettere di essere innamorati”. Era di fretta e se ne è andata subito, con la sua frase che faceva ancora vibrare le brioche alla crema come fossero strumenti musicali. Le ha fatte vibrare tutto il giorno, perché io ho continuato a pensare a quella frase. Per me le idee impossibili ma non del tutto assurde dicono sempre qualcosa in più sulle persone che li dicono. Vorrei proprio conoscere la storia di quella tizia. Se qualcuno scrivesse mai un romanzo su Silvia Angiolini, vedova Dellorio, io lo comprerei di sicuro.

Nonostante cerchi di evitarlo come la peste, mi capita spesso il turno serale. È bello vedere l’alba delle persone, mentre i loro tramonti hanno una malinconia che troppo spesso viene incendiata dall’alcool. Durante il turno serale vedo la gente non capirsi, sfottersi, perdersi e litigare. I loro racconti sono fiumi in piena che non riesco ad arginare. Quando si fa tardi e si avvicina la chiusura, gli attaccabrighe che vivono nei dintorni sembrano mettersi d’accordo nel venire al Bar dell’Ultimo. Nei momenti in cui ho solo voglia di chiudere e tornare a casa, o magari farmi cullare da braccia calde e affettuose, mi ritrovo a dover lottare per far schiodare solitari cronici in cerca d’attenzione, ribelli della domenica che vogliono fumare dentro al locale, iracondi in attesa di esplodere. Metto le sedie sui tavoli, ma c’è qualcuno che le toglie; chiedo gentilmente che si liberi il locale, e mi trovo sfottò tipo “ma io sono l’ultimo cliente a uscire dal locale”; mi metto a gridare e ricevo lanci di improperi o di oggetti. Le molle degli animi cercano motivi per caricarsi, come può essere il tanga di Matilde che, visibile attraverso i pantaloni di lino bianco, attira gli sguardi di donne e i commenti di uomini. Io ci sono abituato e quasi non lo guardò più. Quasi. In mezzo al caos della chiusura non riesco a impormi. Ci sono eccezioni per cui il turno serale vale la pena – sia ben inteso – ma non sempre ho le forze di mettermi a raccogliere perle dal fango.

Settimana scorsa c’erano un tizio e una tizia che erano già lí quando ho iniziato il turno. Li aveva fatti entrare Nando, e io non sapevo in cosa fossero gli “ultimi”. Mi avevano colpito il sensuale caschetto nero di lei e le eleganti basette spesse di lui: Valentina che incontrava Corto Maltese. Erano in fondo al bancone e non sono riuscito a seguirli come avrei voluto. Li ho sentiti parlare di cinema: lei sosteneva che il cinema dovesse essere intrattenimento, lui che il messaggio fosse importantissimo. Ho sentito che discutevano di cibo: lui sosteneva che la carne fosse necessaria in una dieta equilibrata, lei che l’impatto ambientale della carne fosse eccessivo. Studiavo il linguaggio dei loro corpi, a tratti aperto, ricco di gestualità e di espressioni di curiosità e sorpresa. A un certo punto si sono arrabbiati, lei ha sbattuto il pugno sul bancone, lui si è alzato. Poi, nel giro di pochi secondi, lei si è rabbuiata e lui si è seduto; si sono guardati e sono scoppiati a ridere. Quando erano pronti ad andarsene ho chiesto loro perché fossero da noi. Mi han detto che erano gli ultimi Palestinesi e Israeliani a credere in un futuro di coesistenza e pace. Mentre lo dicevano, avevano gli occhi tristi. Non ho chiesto chi fosse chi. Nel vederli uscire avevo voglia di fermarli per continuare a parlare, per poterli contraddire e dimostrare che non erano gli ultimi. Invece, sono stato zitto.

Ho proposto che il bar avesse un gran varietà di bicchieri. Come spesso succede, Nando non era d’accordo ma poi mi ha assecondato e siamo andati insieme a comprarli nei negozi di oggettistica, da IKEA e da un rigattiere amico di Matilde. La mia era un’idea estetica e poi pensavo alle diverse esperienze sensoriali che i clienti avrebbero potuto avere. Poi, col tempo, mi sono reso conto che i bicchieri hanno una sorta di personalità con cui gli avventori tendono a identificarsi. Allora ho cominciato a far scegliere loro i bicchieri che preferiscono. Uno dei nostri clienti più fedeli é Ernesto, l’ultimo a commentare la Coppa del mondo di calcio dell’86 alla tv argentina. Caro amico di Diego Armando Maradona, Neto é un mingherlino sulla sessantina che, quando viene da noi, ricrea alcuni dei gol di Diego. Nel farlo, usa i bicchieri. Inizia scegliendo minuziosamente ventitré coppe di vetro: undici per i giocatori della squadra del Pibe de oro, undici per gli avversari e uno che rappresenta lui stesso. Ci può mettere anche un’ora, perché sceglie i bicchieri con cura, quasi sempre tutti diversi, eccetto che per Maradona, per cui usa una coppetta tipo ‘bodega’: più larga che alta, inspiegabilmente elegante. Mentre Neto distribuisce i pezzi sul tavolo rettangolare, gli altri avventori smettono di fare quello che stanno facendo per assistere alla creazione di un’opera d’arte che é lo specchio di un’altra opera d’arte fatta una quarantina di anni prima, non su un tavolo ma su un campo di calcio. Con fare solenne e movimenti fluidi e veloci, l’amico di Diego fa la cronaca del gol, aggiungendo dettagli minuziosi e sorprendenti: un calzino abbassato a metà, una zazzera ribelle su un casacca strappata sulla schiena, un pomo d’adamo che sobbalza. Come marionette, i calciatori-bicchieri vengono mossi dalle sapienti mani rugose di Neto. Appena tocca il bicchiere di Maradona, l’omino diventa serio, centellina le parole in modo religioso, rallenta. Diego non si limita a ‘passare’, ‘tirare’ o ad ‘attaccare’. Diego ‘orchestra’, ‘carezza’, ‘decide’. Diego – il bambino Diego – gioca, e lo fa come lo ha sempre fatto, sulle strade sterrate e pozzangherose di Buenos Aires e negli stadi più prestigiosi del mondo. Pensavo che sul campione argentino non ci fosse più niente di originale da dire, ma avevo torto marcio. Ricordo tutti i gol che Neto ha presentato, ero in prima fila. Ricordo il gol alla Stella Rossa nella Coppa delle Coppe del 1982 e, soprattutto, il gol alla Grecia nel mondiale del 1994. Il gol alla Grecia era unico, poderoso, irripetibile perché poi Maradona fu squalificato per doping. Quando Neto ci raccontò quel gol e descrisse l’esultazione luciferina di Maradona, il bicchiere di Diego gli sfuggì di mano, cadde e si ruppe. Era l’unico bicchiere di quel tipo. Ne ricomprai subito uno uguale ma Ernesto, pur continuando a frequentare il bar, smise di fare i suoi happenings.

Perché non venite anche voi al bar? Vi aspetto. Non pensiate di non essere gli ultimi, perché siamo sempre l’ultimo esemplare di una qualche specie in via di estinzione. Guardatevi dentro e intorno, cercate la vostra ultimità. Quando l’avete trovata, vi aspetto e la celebriamo assieme. Fa niente se poi scoprite che non è così, come è successo per il principe De Tremendis. Essere gli ultimi può far sentire speciali, unici, soli, tristi. Ma è sempre un esercizio interessante. Così dice Nando. Quando gli ho obiettato che sentirsi soli non è poi così interessante, lui mi ha detto che “la solitudine è uno dei motori inarrestabili della vita”.

Venite, vi aspetto. Se non aveste idee, parliamone, qualche spunto ve lo do io. Come ho fatto ieri con l’ultimo panettiere di viale Libertà o l’ultima studentessa del Liceo ‘Christian Mahdi’ a imparare a memoria un pezzo del Don Chisciotte. In qualche modo, anche se tirata per i capelli, una sorta di ultimità la troviamo. Sì, vi aiuto io. Però non ditelo a quel brontolone di Nando, che poi dice che mi stresso troppo e finisco per stressare anche lui. Perfavore, non ditelo a Nando.


NOTA

L’immagine di copertina, un edificio a Cuba, è un tributo alla copertina dell’album Crêuza de mä di Fabrizio de André.

igor

6 risposte a "L’ultimità"

  1. Idea impossibile ma non del tutto assurda, quella di Silvia Angiolini? Un’idea, appunto, che così come il decidere non può avere nulla a che vedere con l’innamoramento. Che quando inizia, accade e quando finisce, accade. In mezzo ci sono le idee, le decisioni, il razionale magari. Ma l’inizio e la fine sono impulsi, qualcosa che ” trascende ogni mio controllo” ( Cit. Visconte di Valmont, Le relazioni pericolose, film di cui suggerirei vivamente la proiezione al Bar degli ultimi)

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    1. In effetti, mi rivedrò anche io Le relazioni pericolose. L’idea del controllo è di per se assurda, ma il desiderarlo può far parte di alcuni momenti di disperazione. Magari mi riguardo anche Se mi lasci ti cancello (titolaccio che traduce il bellissimo titolo originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind), nel quale si cerca invano il controllo dei ricordi di una relazione d’amore finita.

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